Il 4 dicembre 2010 la fumetteria Libroteka di Trento ha
ospitato un incontro con Keiko Ichiguchi e Andrea Venturi. La prima
parte dell'incontro è consistita in un'intervista pubblica condotta da
me e da Roberta Tarabelli. Successivamente gli autori hanno disegnato
delle dediche alle persone che hanno assistito alla presentazione dei
loro fumetti. Di seguito pubblico la trascrizione dell'intervista.
Potreste essere incuriositi dal fatto che una mangaka e un disegnatore di Tex
abbiano presentato assieme i loro fumetti: dovete sapere che Andrea Venturi e Keiko Ichiguchi sono marito e moglie.
Biografia di Keiko Ichiguchi
Keiko Ichiguchi (Osaka, 19 dicembre 1966) comincia a realizzare fumetti mentre frequenta l’università. Dopo avere pubblicato alcune fanzine con la parodia di Captain Tsubasa (Holly e Benji), partecipa a un concorso per aspiranti fumettisti indetto dalla casa editrice Shogakukan nel 1988. Riesce a lavorare professionalmente nel campo dei fumetti, pubblicando alcuni shojo manga, e contemporaneamente a laurearsi in Italiano. Nel 1994 si trasferisce in Italia. A Bologna conosce i Kappa Boys con i quali dà il via a una collaborazione che dura tutt’oggi. Disegna “Oltre la porta” sui soggetti di Andrea Baricordi, Massimiliano de Giovanni, Barbara Rossi e di se stessa e, dopo avere firmato “1945” e “America” per la casa editrice Kodansha, inizia a realizzare fumetti direttamente per il mercato italiano e francese. Oltre a fumetti scrive tre saggi intitolati “Perché i Giapponesi hanno gli occhi a mandorla”, “Anche i Giapponesi nel loro piccolo s’incazzano” e “Quando i Giapponesi fanno ding”. La sua ultima opera, intitolata “Là où la mer murmure (Dove sussurra il mare)”, è pubblicata in Francia da Kana e in Italia da Ronin Manga.
Biografia di Andrea Venturi
Dopo avere conseguito il diploma all’Accademia di belle arti, Andrea Venturi (Bologna, 4 luglio 1963) inizia la sua carriera come grafico pubblicitario. Successivamente collabora con lo studio di Bruno Bozzetto per il quale disegna fondali per un cartone animato. Nel 1989 si propone come autore di fumetti alla Acme, che pubblica una sua storia nella rivista Mostri, e alla Sergio Bonelli Editore. Entra subito nello staff di Dylan Dog di cui disegna quattro episodi, due sceneggiati da Tiziano Sclavi (“L’uomo che visse due volte” e “Johnny Freak”) e due da Claudio Chiaverotti (“Il gioco del destino” e “Cronache di straordinaria follia”). Nell’Almanacco del West del 1996 viene pubblicata la sua prima storia di Tex. Successivamente diventa disegnatore del mensile Tex, ruolo che continua a ricoprire fino a oggi. Dal 1997 al 1999 disegna anche le prime 31 copertine della serie Magico Vento.
Il sito della fumetteria Libroteka.
Il blog di Keiko Ichiguchi.
Roberta Tarabelli: Come hai deciso di diventare una mangaka? La tua decisione come è stata presa in famiglia? Hai avuto difficoltà oppure i tuoi genitori ti hanno incoraggiata?
Keiko Ichiguchi: Ho cominciato a leggere i fumetti quando avevo dieci anni. Ho iniziato con Candy Candy. Copiavo, copiavo, copiavo perché mi piaceva. Era pura passione, normalissima, come per tutti i giovani giapponesi. Ho cominciato a pensare di fare la fumettista in maniera realistica quando avevo 20 anni. Facevo delle fanzine con le mie amiche. In Giappone il mercato delle fanzine è molto grande, non come in Italia, e alcuni possono mantenersi pubblicandole. E’ un mercato parallelo a quello professionale. Facevo una parodia di Captain Tsubasa e mi divertivo, però non ero contenta perché volevo farlo come mestiere.
Quando avevo 21 anni, all’ultimo anno di università, ho deciso di provare a partecipare a un concorso. Mi sono detta: “Se arrivo a una posizione non malvagia ci riprovo. Se va male vuole dire che non ho talento, quindi rinuncio e vado a cercare un lavoro fisso.” Ho partecipato, e non so se per fortuna o per sfortuna, ho vinto. Quindi ho deciso di lavorare come professionista. I miei genitori erano assolutamente contrari. Mio padre non mi ha parlato per una settimana e mia madre non voleva vedermi. Sono stata io la testarda.
Luigi Siviero: Facciamo la stessa domanda ad Andrea Venturi. Sei entrato subito nello studio di Bruno Bozzetto, però amavi i fumetti. Quello che ti interessava davvero era fare fumetti?
Andrea Venturi: Sicuramente sì, perché li ho amati moltissimo ancor prima di imparare a leggere. Mi ricordo che mia madre mi leggeva i testi nei balloon mentre io guardavo le figure, per cui nel tempo c’è sempre stato questo desiderio. Mi sembrava molto difficile, vista la qualità necessaria per fare fumetti, poter entrare professionalmente nel settore, allora, subito dopo la scuola, ho cercato vari lavori, anche nel settore della pubblicità. Poi venne questo contatto con Bruno Bozzetto e feci un paio di lavori per loro. E’ un’esperienza che mi è piaciuta molto, però il mio sogno segreto, forte, era indubbiamente quello di disegnare fumetti.
Luigi Siviero: Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Andrea Venturi: Per elencare tutti gli autori di riferimento dovreste avere tempo fino a domani mattina alle 8 e mezza! Forse finisco di dirli! E’ vero, non è una battuta. Mi è molto difficile ridurre l’elenco perché il panorama si è mano a mano allargato: ci sono tanti autori che sono irrinunciabili. Ognuno dà qualcosa che gli altri non danno. Comunque, forzatamente, per stringere stringere, direi che fra i riferimenti principali ci sono Magnus, che avevo letto molto al tempo di Alan Ford, e Aldo Di Gennaro, grande autore del Corriere dei Ragazzi, una testata che seguivo regolarmente. Poi alcuni grandi disegnatori americani che facevano parte del parco letture della mia infanzia. Sono quelli che disegnavano Silver Surfer, Devil e i Fantastici Quattro: autori come Jack Kirby, John Buscema, Gil Kane, oppure Neal Adams, che disegnava altri supereroi. Poi ci sono dei classici fondamentali che nel tempo mi si riconfermano puntualmente: sono ad esempio Alex Raymond e Milton Caniff, che sono dei manuali di disegno e di racconto.
In ambito Texiano poi autori come Giovanni Ticci, Claudio Villa, Civitelli non finiscono mai di stupirmi, ma…come dicevo l’elenco potrebbe continuare pressoché all’infinito…
Luigi Siviero: quando hai iniziato a disegnare Dylan Dog hai cercato di rifarti a qualche disegnatore della serie? Hai avuto qualche punto di riferimento?
Andrea Venturi: Sì, indubbiamente, perché volevo riuscire a inserirmi armonicamente nella serie dal punto di vista stilistico, per quanto fosse consentito a ogni disegnatore di avere una sua personalità. Se si guardano i disegnatori della serie si vede che ognuno ha un suo stile riconoscibile. Guardai tutti, ma in particolare Giampiero Casertano, Stano, Ambrosini.
Casertano aveva un segno che mi sembrava particolarmente rappresentativo del carattere grafico della serie.
Luigi Siviero: Cosa hai fatto per Bruno Bozzetto?
Andrea Venturi: Io mi ero proposto come scenografo assieme a un amico con cui avevo studiato assieme a scuola. Proponemmo varie cose per fare vedere quello che potevamo fare, in quel momento serviva uno stile disneyano, perché stavano facendo uno spot pubblicitario per degli shampoo un po’ ispirato alla Biancaneve di Walt Disney. Ci chiesero in particolare di fare delle scenografie dipinte che assomigliassero allo stile di quel film. E’ stato emozionante perché di Bruno Bozzetto fin da bambino avevo amato molto lungometraggi d’animazione come “West and soda” e “VIP mio fratello superuomo”.
Roberta Tarabelli: Tornando al concorso, puoi raccontarci come ti sei preparata, cosa hai fatto, come è andata?
Keiko Ichiguchi: Io sono nata e cresciuta a Osaka. Dato che tutte le case editrici sono concentrate a Tokyo non sapevo niente della realtà del mondo dei fumettisti professionali. Ero tranquilla. Ho partecipato con i fumetti che ho sempre fatto e quando un redattore della casa editrice mi ha telefonato, mi ha detto che la mia opera era fra quelle che potevano vincere il premio. Mi ha fatto questa proposta: “Se tu adesso mi prometti che lavorerai per noi, vincerai, altrimenti no”. Questo è stato il mio primo incontro con il mondo professionale. Ero giovane ed entusiasta e ho detto subito sì.
Appena ho detto sì, i miei genitori si sono voltati e non volevano più vedermi. Comunque ho detto che io ci avrei provato per un anno e se alla fine non ci fossi riuscita avrei cercato un altro lavoro. Io stavo per laurearmi, mi bastava scrivere la tesi. Mio padre mi ha consigliato fortemente di rimanere studentessa, perché in Giappone la posizione sociale conta tantissimo. Lui temeva che io, dopo la laurea, finissi ad essere una presunta fumettista senza guadagno, che nella società giapponese non viene considerata. Allora ho fatto un patto con i miei genitori: per un altro anno sarei rimasta all’università ma senza mai frequentarla. Infatti io non sono mai andata all’università e per un anno ho lavorato come fumettista per vedere com’era.
Il mestiere di fumettista non è visto tanto bene, soprattutto dai genitori. Penso che sia così anche qui. Se io avessi un figlio che un giorno mi dicesse che vuole diventare cantante rock io gli sbatterei la testa. Tutto il Mondo è uguale: i genitori sono preoccupati per i figli. Ed è giusto così.
Pubblico: Adesso i genitori sono contenti?
Keiko Ichiguchi: Non tanto! Sono in Italia, dall’altra parte del Mondo rispetto al Giappone. Ma adesso sono tranquilli, però 20 anni fa i miei genitori erano molto molto preoccupati.
Roberta Tarabelli: C’è un fumetto al quale ti senti più legata?
Keiko Ichiguchi: I fumetti ai quali sono più legata sono “1945”, ambientato in Germania durante la Seconda Guerra Mondiale, e “America”, ambientato in Giappone e incentrato su un gruppo di ragazzi che vogliono andare in America. Alla fine tutti i miei fumetti hanno dei legami con me.
La casa editrice era contraria a pubblicare “Nella città dell’acqua” inserita nell’albo “Blue”, un fumetto ambientato in Italia. Quando sono usciti fumetti come “Lady Oscar”, ambientato in Francia, e “Candy Candy”, ambientato in Inghilterra e America, i fumetti ambientati all’estero erano veramente tanti forse perché ai Giapponesi piaceva l’idea di andare all’estero. Ma quando ho iniziato a fare fumetti questa moda non c’era più. La casa editrice voleva un fumetto ambientato nella vita quotidiana. Alla fine la casa editrice ha accettato “Nella città dell’acqua”, però ha detto che non poteva essere pubblicato sulla rivista principale. Infatti è andato su una rivista secondaria.
“Con gli occhi aperti” è una storia autoconclusiva di cento pagine pubblicata tutta in una volta. Con questa storia per la prima volta sono stata inserita in prima posizione all’interno della rivista. Molte riviste giapponesi, come la rivista per cui lavoravo, hanno circa 420 pagine in cui ci sono più o meno dodici storie. Di solito il fumetto più popolare, oppure quello che la casa editrice vuole lanciare, viene messo all’inizio. Purtroppo mi è capitato solo una volta di essere messa al primo posto nella rivista, però ho avuto questa occasione. Da quel punto di vista è un bel ricordo.
“Dove sussurra il mare (Là où la mer murmure)” è l’ultimo fumetto che ho pubblicato. E’ stato pubblicato prima in francese da una casa editrice franco-belga e poi in italiano, però lo ho scritto totalmente in italiano. La versione giapponese di questo fumetto non esiste. L’ho fatto solo per il mercato europeo. Purtroppo, vivendo in Italia da quasi 17 anni, non conosco più il Giappone odierno. Conosco bene quello di una volta, quindi potrei fare anche oggi solo fumetti come “America”, ambientato in Giappone ma negli anni ’80. La società giapponese cambia così velocemente che non mi sento di potere fare fumetti ambientati nel Giappone di oggi.
Luigi Siviero: Ti senti lontana dalla società giapponese odierna?
Keiko Ichiguchi: Metà e metà. Con internet posso aggiornarmi sulle notizie attuali, mentre una volta non potevo mai sapere niente del Giappone. Internet ha cambiato tutto, ha cambiato anche la mia vita. Lavoro ancora per il Giappone come scrittrice: posso lavorare sia per il Giappone sia per l’Italia, la Francia e il Belgio. Io sono una giapponese abbastanza tradizionale, anche se sono un po’ fuori dal canone della società giapponese. Io sono molto legata alla tradizione giapponese.
Da Comic Art Fans (il disegno non è stato fatto durante l'incontro alla Libroteka)
Luigi Siviero: Sei entrato nello staff di Dylan Dog in un momento particolare, cioè quando la serie si trasformava da serie di successo, ma limitato alla sua nicchia di pubblico, a serie di culto. I tuoi colleghi e la redazione come vivevano questo cambiamento?
Andrea Venturi: Non credo che neanche la casa editrice si aspettasse questo incremento di vendite che a un certo punto fu vertiginoso. Semplicemente Dylan Dog era fatto con passione, a partire da Tiziano Sclavi che lo aveva creato secondo il suo gusto, la sua sensibilità, fino ai disegnatori che vi collaboravano, il tutto poi curato con attenzione e rispetto per il lettore come di consueto in casa Bonelli. Lo ho anche sentito dire più volte che non ci si aspettava un successo del genere. E’ stato accolto con grande piacere perché ha portato il fumetto italiano all’attenzione di un nuovo tipo di pubblico. Tante ragazze che solitamente non leggevano fumetti, o comunque non leggevano il fumetto avventuroso bonelliano, hanno trovato in Dylan Dog un fumetto che piaceva loro.
Luigi Siviero: Storie come “Johnny Freak”, “Caccia alle streghe” e “Il lungo addio” sono nate per via di questo cambiamento?
Andrea Venturi: Penso che Dylan Dog sia sempre stato scritto con molta sincerità da parte di Tiziano Sclavi. Non penso che ci siano mai state delle cose pensate a tavolino per soddisfare certe esigenze di pubblico. Bisognerebbe comunque fare questa domanda a Tiziano Sclavi che è la persona più indicata a rispondere. Personalmente ho sempre pensato che il cambiamento, anche il rinunciare un po’ allo splatter, fosse anche un modo per non ripetersi e non farlo diventare un cliché. Lo splatter è stato anche un gioco e un rimando di citazioni con un certo tipo di cinema che Sclavi ha amato fare e che il pubblico ha dimostrato di capire, soprattutto nella sua ironia. Naturalmente Tiziano Sclavi non era solo questo. E’ un artista che ha tante sfaccettature e tanta voglia di raccontare tante storie diverse, quindi era naturale anche cambiare. D’altronde anche un disegnatore ha un suo cambiamento, anche se a volte non se ne rende conto: semplicemente nella vita si vedono tante cose diverse, si rimane influenzati e si sceglie di esplorare strade nuove.
Luigi Siviero: A proposito di cambiamento dello stile, sfogliando “L’uomo che visse due volte” si nota che è molto ricco di dettagli, mentre i fumetti che hai disegnato in seguito sono più essenziali.
Andrea Venturi: Il percorso di maturazione del proprio stile penso sia un lungo viaggio per ogni disegnatore, e risente di molte cose.
E’ un percorso anche emotivo penso, specialmente all’inizio, perché si arriva con grande emozione alla prima uscita, con la preoccupazione di riuscire a farcela, di riuscire ad essere abbastanza chiari con il disegno, comunicativi. Si sperimentano per la prima volta in modo professionale tante cose. Un conto è essersi esercitati disegnando per conto proprio e un altro è dovere disegnare una sceneggiatura che ha scritto un’altra persona, quindi cercare di fare del proprio meglio per esprimere adeguatamente quella situazione, quell’emozione, quella sceneggiatura.
A volte poi si ha l’impressione, vedendo la pagina stampata nella sua dimensione definitiva, di solito fortemente ridotta, che i dettagli nel disegno possano risultare troppo fitti e che questo non aiuti la leggibilità.
Per un certo periodo è stata anche questa la mia preoccupazione, unitamente alla mia ammirazione per alcuni disegnatori che si esprimevano in modo più sintetico.
Questo può avere portato a qualche cambiamento stilistico.
Da qualche tempo penso di avere recuperato uno stile piuttosto dettagliato, sto cercando semplicemente di trovare il giusto equilibrio di stile che mi consenta di raccontare nel modo più appropriato le storie che vado a disegnare per poi sottoporre il tutto all’importantissimo giudizio dei lettori.
Ma anch’io, come lettore di fumetti, sono fra loro…
Roberta Tarabelli: Ormai vivi in Italia da 17 anni. Questo tuo amore per l’Italia c’è stato sempre o è nato per un motivo particolare?
Keiko Ichiguchi: E’ vero che mi sono laureata nella lingua italiana, però è successo per caso. Il fumetto è sempre stato il mio hobby ma non pensavo che diventasse il mio mestiere. Pensavo soltanto di diventare indipendente economicamente dai miei genitori al più presto possibile.
Volevo diventare controllore di volo perché mi piaceva l’aereo e l’idea di partire. In quel periodo in Giappone quel lavoro era riservato solo agli uomini. Quando ho dato l’esame era il primo anno in cui anche le ragazze potevano accedere, quindi per i miei genitori, che sono piuttosto tradizionali, era una cosa sconvolgente. Quando ho detto ai miei genitori che non volevo andare all’università ma alla scuola per controllori di volo c’è stato un litigio fortissimo. Allora io ho detto che avrei fatto comunque l’esame di ammissione ad alcune università per calmarli, ma con l’intenzione di rinunciare comunque. (In Giappone per entrare in qualsiasi università c’è l’esame d’ammissione. Molti liceali danno gli esami di due o tre università per la sicurezza.) E cos’è successo? Per fortuna ho passato tutti gli esami compreso quello della scuola per diventare controllore di volo. Quando ho detto che avrei scelto quella per diventare controllore di volo, mio padre si è rassegnato alla mia testardaggine ma mia madre e mia nonna hanno pianto per due giorni interi dicendo, “non è un lavoro per una ragazza! Inoltre la scuola si trova a Tokyo, lontana da Osaka”. Hanno vinto loro due. Così ho finito per frequentare la facoltà della lingua italiana dell’università di Osaka, che ho scelto prevalentemente guardando il livello dei corsi.
Pubblico: Hai scelto la facoltà con i corsi più facili?
Keiko Ichiguchi: No no no. L’università che ho fatto era une delle due università statali del Giappone specializzate nella lingua straniera. In Giappone l’esame per entrare all’università è piuttosto pesante. Non era facile entrare, ho studiato parecchio. Di solito i ragazzi giapponesi, quando scelgono la facoltà, visto che c’è un esame d’ammissione veramente pesante, fanno tante prove per vedere a che livello è il loro cervello. Il mio cervello era al livello dell’italiano!
[risate]
Mi interessavano anche altre facoltà, per esempio biologia, però mi sembrava che conoscere una lingua straniera abbastanza rara mi avrebbe potuto dare più occasioni di trovare lavoro. Quindi, anche con questa prospettiva, ho deciso di scegliere quella facoltà. E’ andata così, per caso. Non mi interessava la lingua italiana, mi spiace dirlo adesso; non mi interessava particolarmente neanche l’Italia, neanche la storia e l’arte.
Comunque la laurea l’ho presa, e quando ho deciso di cambiare la mia vita sono venuta qua, perché l’unica cosa che sapevo, oltre a fare fumetti, era la lingua italiana. Ho ricominciato a studiare e a vivere senza immaginare che avrei scritto tre libri in giapponese sulla storia italiana.
Se qualcuno mi chiede se mi piace l’Italia… devo dire che ho avuto anche tanti problemi per poter vivere qua perché sono extracomunitaria. Ho avuto anch’io grossi problemi per avere il permesso di soggiorno. Anche i Giapponesi sono extracomunitari e purtroppo tante volte ho rischiato di perdere il permesso. Ogni volta che cambiavano la legge non sapevo dove sbattere la testa. Quindi non è che o mi piace o non mi piace. Magari a voi piace l’Italia ma sicuramente vedete tante cose brutte. Io mi lamento come gli Italiani, adesso. Guardando il telegiornale dico tutto quello che dite voi.
[risate]
Roberta Tarabelli: Come è stato l’impatto concreto con la vita italiana quando ti sei trasferita qui?
Keiko Ichiguchi: A parte il problema della lingua… Voi dite abbastanza chiaramente quello che pensate. Almeno ai miei occhi, sì. Dipende dalla persona, naturalmente. I Giapponesi non sono per niente bravi a esprimere se stessi con le parole. Quasi tutti i Giapponesi potrebbero avere problemi. Invece ci sono dei giapponesi che non stavano bene in Giappone perché dicevano troppe cose e qua in Italia si trovano benissimo.
Luigi Siviero: Puoi raccontarci come erano i tuoi rapporti con Tiziano Sclavi, visto che aveva fama di essere molto riservato, almeno all’esterno. Con i disegnatori com’era?
Andrea Venturi: Anzi, molto gentile. Riservato magari sì, ma poi capita spesso che fra sceneggiatore e disegnatore, visto che ognuno lavora in casa propria, ci si senta più che altro per telefono. Mi ricordo che lo incontrai alla Bonelli, al primo appuntamento per far vedere le mie prove di Dylan Dog. Fu molto gentile e informale. E’ un’atmosfera che ho trovato fin dal primo momento alla Bonelli. Nel momento in cui c’era la possibilità da parte loro di dare un po’ di lavoro e di integrarmi nello staff di Dylan Dog, il rapporto è stato molto chiaro, semplice e lineare.
Tiziano Sclavi mi propose di disegnare tre pagine di prova che erano un test comune a tutti i disegnatori che si proponevano per la serie. Tre situazioni tipiche di Dylan Dog. Cercai di disegnare queste tre pagine meglio che potevo, poi le portai alla Bonelli e le guardammo assieme a Sclavi. Mi diede il suo parere e mi disse che c’erano delle cose che andavano bene e me ne fece notare altre che andavano meno bene.
Una cosa che mi è servita da lezione è che a volte non è facile vedere i propri difetti. Se io riguardo adesso quelle tavole li vedo benissimo, sono lampanti, però al momento non me ne rendevo conto. E’ sempre difficile essere obiettivi verso il proprio lavoro, verso la qualità del proprio lavoro. Capire se bisogna correggerlo o meno.
Sclavi mi diede, naturalmente d’accordo con Sergio Bonelli, un'opportunità bellissima, perché dopo queste prove mi disse che stava iniziando a scrivere una storia nuova e mi chiese se volevo provare a disegnare le prime dieci pagine. Sarebbero state un'ulteriore prova e se fossero andate bene avremmo proseguito, altrimenti ci saremmo aggiornati e avrei cercato di maturare un po' di più. Io cercai di fare ancora di più del mio meglio e per fortuna quelle dieci andarono bene. Erano le prime dieci pagine della prima storia che ho disegnato.
Luigi Siviero: Sei un disegnatore abbastanza lento?
[risate, soprattutto da parte di Keiko Ichiguchi]
Andrea Venturi: Indubbiamente. Io ci metto il tempo di farle meglio che posso. Poi c'è chi riesce meglio di me mettendoci la metà del tempo. Piuttosto che licenziare una tavola senza essere soddisfatto...
Sento molto la fortuna di fare questo lavoro e di disegnare per queste testate, quindi sinceramente ci tengo molto. A volte, proprio quando mi ritrovo a finire una tavola, cerco di guardarmela il più possibile sotto ogni punto di vista, cercando di fare quello che è il mio meglio.
Keiko Ichiguchi: Lui è molto scrupoloso. Quando incomincia a tormentarsi perché vuole finire bene le tavole, si vede. Di solito io non ficcanaso mai nel suo lavoro tranne in questi momenti. Vado a vedere se c'è qualcosa che non va, ma mi accorgo che le sue tavole sono tutte belle! "Consegnale!", dico. E se trovo qualcosa di storto ai miei occhi dico solo "Cambia solo questo e consegna!". Tutti i disegnatori vogliono fare come lui: completare, perfezionare le tavole. Quando comincia a ritoccare i disegni non finirebbe mai, quindi qualcuno deve dire "Consegnale!", e lo faccio.
Roberta Tarabelli: Funziona anche al contrario?
Keiko Ichiguchi: No!
[risate]
Andrea Venturi: Delle volte pensi di non essere abbastanza brava e io ti dico quanto sia assurdo che la pensi così.
Keiko Ichiguchi: Nel mio caso quando finisco sono contenta. Ma subito dopo, le tavole cominciano a farmi schifo.
Io consegno perché a quelle tavole non so cosa potrei fare di più. Non sono come lui. Dal mio punto di vista sono incapace di migliorare. Mi rassegno e le consegno, e dopo mi fanno schifo.
Roberta Tarabelli: Non sei mai soddisfatta.
Keiko Ichiguchi: No.
Roberta Tarabelli: Da qualche anno c'è un interesse sempre maggiore degli Italiani per il Giappone. Qual è la spiegazione? E' una cosa che sembra saltata fuori dal nulla e sta crescendo. Ci sono sempre più corsi di giapponese, corsi di cucina, associazioni che spuntano.
Keiko Ichiguchi: Me lo chiedono tutti e nessuno, nemmeno io, sa rispondere. Per prima cosa c'è il fascino esotico, perché il Giappone è un Paese lontano da qui. Magari una volta l'America era così per gli Italiani. Anche per i Giapponesi: l'America è un Paese ricco, di sogno. E adesso quanti giovani giapponesi vogliono venire in Italia! Io non sono occidentale quindi non capisco che idea avete del Giappone. I Paesi asiatici di solito sono poveri e poco sviluppati, e il Giappone è andato in una direzione diversa. Se andate in Thailandia, in India o in Cina vedete una cosa; se andate in Giappone vedete un'altra cosa molto più particolare. Forse perché il Giappone è un'isola: tutte le culture sono arrivate e si sono mischiate là. Invece in altri Paesi, come Cina e India, la cultura passa ma non si ferma. In Giappone tutto arriva e si ferma perché dietro al Giappone c'è soltanto il mare. In Giappone abbiamo incorporato sia l'Occidente che l'Asia. Spesso gli Asiatici dicono che il Giappone non è Asia. Dicono che il Giappone è Occidente in Asia. Per gli Occidentali andare in India o Thailandia è andare in un Paese completamente diverso, esotico. Invece se andate in Giappone troverete un paese sempre molto esotico ma allo stesso tempo molto occidentale, una miscela completa di tradizioni nipponiche, cultura occidentale, tecnologia, modernizzazione ecc. Forse è più facile per voi entrare nella mentalità e nella cultura giapponese piuttosto che in quella cinese, indiana, tailandese ecc.
E poi i cartoni animati hanno educato gli occidentali e li hanno avvicinati al Giappone. I cartoni animati e i fumetti sicuramente hanno aiutato.
Ultimamente ho pensato una cosa interessante. I film asiatici arrivano in Italia con qualche anno di ritardo. I fumetti invece escono contemporaneamente in Giappone e in Italia. Forse per la prima volta nella storia i ragazzi italiani e giapponesi allo stesso momento stanno leggendo la stessa cosa. E' un fenomeno interessante. Se i ragazzi italiani vanno in Giappone trovano esattamente quello che hanno letto nei fumetti.
Luigi Siviero: In Giappone c'è interesse per i fumetti italiani?
Keiko Ichiguchi: Mi dispiace, no. Non c'è interesse per il fumetto occidentale in generale. Il mercato giapponese è talmente grande, e la scelta è talmente vasta, che è difficilissimo entrare dall'estero. Solo in pochi, come Moebius, Palumbo e Igort, hanno pubblicato in Giappone.
Luigi Siviero: Per protezione del mercato o per disinteresse?
Keiko Ichiguchi: Secondo me per la differenza nel gusto dei lettori. Per esempio abbiamo portato i libri di Sergio Toppi in Giappone e li abbiamo regalati a un disegnatore che conosciamo. A lui è piaciuto da morire, però non lo aveva mai visto. Un altro fumettista giapponese che conosco già aveva i libri di Sergio Toppi.
I fumetti molto realistici in Giappone vanno meno come gusto.
Oppure prendiamo il fenomeno kawaii. Il kawaii è diventato quasi una cultura in Giappone. Quello che consideriamo kawaii, cioè carino, è diverso da quello che voi pensate come carino.
Per esempio le Winx sono considerate carine?
Roberta Tarabelli: Anoressiche più che altro.
Keiko Ichiguchi: Secondo il gusto giapponese le Winx non saranno considerate proprio carine, cioè kawaii, perché sono un po’ spigolose.
Faccio un altro esempio. Alla fiera del libro di Bologna un ragazzo ha presentato le sue tavole a una casa editrice giapponese. Lui era bravissimo. Il redattore giapponese ha ammesso che era bravo e le tavole erano veramente belle, ma non vanno nel manga giapponese perché il gusto è diverso.
Luigi Siviero: I manga sono disegnati in quel modo per via del gusto degli autori oppure questi cercano di adattarsi?
Keiko Ichiguchi: Tutte e due. Però non possiamo dimenticare i redattori. In Giappone i redattori hanno un potere enorme sui fumettisti. Se l'autore disegna in una certa maniera, il redattore gli fa cambiare lo stile se pensa che debba essere cambiato.
Pubblico: Fare fumetti in Giappone non è un onore? E' veramente visto così male il lavoro dei mangaka?
Keiko Ichiguchi: Sì, semplicemente sì. E' un lavoro particolare. Se puoi continuare a pubblicare una storia ogni mese o ogni settimana puoi guadagnare veramente tanto, però non è un lavoro sicuro. Se fai il fumettista e vuoi prendere un appartamento in affitto farai fatica a trovarlo perché tutti sanno che è un lavoro economicamente instabile. A meno che il padrone di casa non ami tantissimo i fumetti...
[risate]
I fumettisti conosciutissimi e ricchissimi non hanno nessun problema. E' vero che il mercato è grande, ma quelli che possono sopravvivere come professionisti sono pochissimi. Io non ce l'ho fatta. In Giappone non ce l'ho fatta. Nell'anno in cui ho pubblicato il mio primo fumetto hanno debuttato 1.500 fumettisti. Ne saranno rimasti pochi. Quelli che possono sopravvivere per qualche anno come fumettisti sono due o tre su 1.500. Quelli che possono avere una certa fama sono uno su 15.000. E' un mondo molto spietato.
Pubblico: Hai lavorato come assistente o hai debuttato come autrice?
Keiko Ichiguchi: Non ho lavorato come assistente perché abitavo a Osaka. Per fare l'assistente in quel periodo sarei dovuta andare a Tokyo.
Pubblico: Avevi degli assistenti?
Keiko Ichiguchi: Non potevo pagarli! Una mia amica mi aiutava sempre gratis. Dovevo fare quasi tutto da sola e ho imparato come finire le mie tavole in modo veloce. Se guardate le mie tavole sono molto bianche, con pochi sfondi. Dovevo imparare a fare in modo che tavole poco lavorate sembrassero lavorate. Invece lavorando in Italia mi soddisfo di più.
Pubblico: Da quando avete iniziato a fare fumetti ad adesso i materiali o i supporti come sono cambiati? Utilizzate le tavolette grafiche?
Andrea Venturi: Ho visto la tavoletta grafica e ho visto i lavori di alcuni illustratori realizzati digitalmente ma non ho alcuna pratica di questi nuovi mezzi. Mi sembra uno strumento interessante perché è molto elastico, cioè ti consente di impastare il tuo lavoro finché vuoi prima di arrivare al prodotto finale. E’ un peccato però che così non rimanga più fisicamente la tavola originale. A me poi piace molto il semplice disegno in bianco e nero al tratto e sono cresciuto con tanti modelli di disegnatori che si esprimevano in questo modo. Lavorando in questa modalità non credo si guadagnerebbe molto in tempo e praticità lavorando in digitale piuttosto che direttamente con china e matita sul foglio di carta. Personalmente i miei strumenti sono molto classici. Uso soprattutto il pennino e il pennello intinti nella china. Uso una carta molto buona che consente di essere grattata con la lametta; se mi sbaglio posso grattare via la china senza rovinare la carta e intervenire di nuovo sopra; questo è il mio margine di tranquillità. Il computer secondo me è interessante a patto che rimanga uno strumento perché comunque è sempre importante partire dalle basi, dal saper disegnare. E’ solo uno strumento, al pari di quelli tradizionali, che ha le sue peculiarità. Lavorando con il colore, ad esempio, so che si lavora su vari livelli, quindi si può intervenire per correggere una cosa all’ultimo momento. Si può intervenire senza ricominciare da capo rifacendo tutto il lavoro. Lavorare con carta, matita, pennello d’altro canto assicura delle emozioni ancora uniche. Chi disegna sa che si crea un rapporto direi quasi di intimità fra gli strumenti di disegno e la carta, la qualità della sua superficie, l’assorbenza…comunque poi, ai fini della stampa, penso che quello che conta di più sia sempre il risultato finale e il modo per conseguirlo fa parte delle scelte personali.
Keiko Ichiguchi: Anch’io uso solo gli strumenti di base: matita con portamina, pennino e inchiostro, retini. Uso il computer solo quando faccio le prove per il colore. Anche a me piace molto disegnare in maniera tradizionale. Mi piace da morire fare il tratteggio e tagliare i retini. Mi piace come lavoro, quindi lo faccio nella maniera tradizionale. E poi disegnando col computer non rimane la tavola originale fatta a mano. Per me è un po’ impressionante.
Pubblico: Come si fa a diventare fumettisti? Come ci si fa notare?
Andrea Venturi: Rispondo ovviamente dal punto di vista di un disegnatore…i percorsi possono essere tanti, penso che essenzialmente sia necessario sapere disegnare, avere un po’ di fortuna e una grande passione per i fumetti. Io posso raccontare solo quello che è capitato a me. Io mi sono presentato alla Bonelli e ho avuto la fortuna di incontrare gente molto disponibile che ha guardato i miei lavori mi ha dato un’opportunità preziosa e mi ha lasciato anche autonomia. Per quanto riguarda il disegno ci sono basi ben precise: io mi ricordo che alcuni professori del liceo artistico mi hanno insegnato delle cose fondamentali sulla tecnica del disegno. Non è però indispensabile fare il liceo artistico: ci sono tanti disegnatori fantastici che non hanno studiato a scuola, però i fondamenti del disegno sono sempre gli stessi. E’ sempre utile, per esempio, conoscere l’anatomia, la prospettiva, il chiaroscuro, la luce, le ombre. Poi si può disegnare in qualunque stile e allontanarsi molto dalla rappresentazione realistica o naturalistica, però la conoscenza di quelle cose rimarrà basilare per conferire solidità e consapevolezza ai propri disegni.
Questa tecnica è una cosa che possiamo studiare tutti. Quello che non si può insegnare così metodicamente è l’immaginazione, il talento personale. Penso che questo sia il frutto della propria maturazione interiore, che comincia da quando nasciamo e continua per tutta la vita. La tecnica credo che serva per trasportare questa immaginazione nel modo più fedele possibile sulla carta da disegno. Io ho avuto degli insegnanti che sono stati importanti non solo per la tecnica ma anche perché mi hanno fatto vedere il lavoro di artisti che non conoscevo prima. Ecco, forse l’immaginazione non si può insegnare ma si può stimolarla, se trovate qualcosa che vi stimola dentro avete trovato un buon modello.
Io in Bonelli ho avuto un percorso molto lineare, forse per la natura stessa della casa editrice. Ho portato dei miei lavori che avevo fatto prima e che non avevano a che fare con la loro produzione, anche qualche lavoro scolastico, per far vedere che sapevo tenere la matita in mano. Però ho portato anche qualche tavola di prova in cui avevo cercato di rifare a modo mio alcune tavole bonelliane già apparse. Naturalmente a ogni casa editrice interessa vedere se si è capaci di fare qualcosa che sia in sintonia con quello che pubblicano. Questo non significa che non ci sia spazio per l’interpretazione personale, ma è allo stesso tempo importante rispettare l’essenza, l’atmosfera, il carattere di personaggi che hanno saputo conquistarsi l’affetto del pubblico.
Pubblico: Ti sei mai autocensurata?
Keiko Ichiguchi: Nelle mie storie non ci sono quasi mai scene violente, quindi non ho bisogno di pensare di autocensurarmi. Tra l’altro quando lavoravo in Giappone era il redattore che mi indicava quale tipo di storia dovevo fare. Io non potevo scegliere quello che volevo. Mi indicava di fare una storia d’amore; i protagonisti dovevano essere dei liceali; doveva finire bene. In ogni puntata dovevo mettere almeno una scena di bacio!
Da quando ho iniziato a fare fumetti per l’Italia e l’Europa, che sono ancora pochissimi, non mi sono mai autocensurata. L’unico problema è parlare di politica. In questo caso cerco di stare attenta. In Giappone non avevo mai pensato a questo problema perché facevo storie d’amore che non avevano nulla a che fare con la politica. Quando ho fatto la storia ambientata in Germania durante da Seconda Guerra Mondiale sono andata in Belgio a presentare l’edizione in francese. I giornalisti mi hanno fatto tantissime domande sulla politica. Non lo avevo mai pensato prima. Da quel momento ho cercato di stare più attenta agli argomenti che tratto, perché una cosa che per i Giapponesi potrebbe non essere grave, per voi potrebbe non essere da toccare. E’ meglio non toccare anche la religione.
Luigi Siviero: Le sceneggiature di Sclavi sono molto dettagliate?
Andrea Venturi: Sì, ma mai in modo pignolo. Dà tutte le informazioni per capire bene l’atmosfera. Fa riferimento a delle illustrazioni, a dei film.
Luigi Siviero: Ti suggeriva anche cosa guardare e cosa leggere? Per esempio “Leggi Il fu mattia Pascal”.
Andrea Venturi: Sì, non ricordo se espressamente mi invitò a leggerlo ma mi disse che era un’ispirazione per la storia. Mi ricordo che per “Johnny Freak” mi consigliò di vedere il film “Freaks”, un famoso film degli anni ’30 diretto da Tod Browning. Per chi non lo conosce dico che i protagonisti di questo sensibile e poetico film lavorano in un circo e sono cosiddetti “fenomeni”, e lo erano anche nella vita vera, persone dall’aspetto fisico “mostruoso” che viene sfruttato per dare spettacolo. I veri mostri di questa storia però sono una trapezista e un uomo forzuto, normali fuori ma cattivi dentro, tanto da voler crudelmente approfittare dei sentimenti dei “Freaks”, che per contro dimostrano autentica umanità, innocenza, bellezza interiore.
Può essere questa infatti una delle chiavi principali per leggere Dylan Dog; infatti nella serie si sottolinea spesso quanto possano essere mostruose le cosiddette persone normali e quanta umanità e sensibilità possa trovarsi nell’animo dei cosiddetti mostri.
Inoltre:
Articolo sul Tex di Venturi.
Intervista e galleria di tavole.
Tex di Andrea Venturi
n. 451 del 1998, Oppio!, soggetto e sceneggiatura di Claudio Nizzi
n. 452 del 1998, Il ritorno del Morisco, soggetto e sceneggiatura di Claudio Nizzi
n. 513 del 2003, Le foreste dell'Oregon, soggetto e sceneggiatura di Claudio Nizzi
n. 514 del 2003, I fucili di Shannon, soggetto e sceneggiatura di Claudio Nizzi
n. 548 del 2006, Documento d'accusa, soggetto e sceneggiatura di Claudio Nizzi
n. 549 del 2006, Corte marziale, soggetto e sceneggiatura di Claudio Nizzi
n. 587 del 2009, L'artiglio della tigre, soggetto e sceneggiatura di Claudio Nizzi
n. 588 del 2009, Il castello nero, soggetto e sceneggiatura di Claudio Nizzi
Almanacco del West 1996, L'uccisore di indiani, soggetto e sceneggiatura di Claudio Nizzi
Almanacco del West 2001, Missione a Sierra Vista, soggetto e sceneggiatura di Claudio Nizzi
Dylan Dog di Andrea Venturi
n. 67 del 1992, L'uomo che visse due volte, soggetto e sceneggiatura di Tiziano Sclavi
n. 81 del 1993, Johnny Freak, soggetto e sceneggiatura di Tiziano Sclavi
n. 118 del 1996, Il gioco del destino, soggetto e sceneggiatura di Claudio Chiaverotti
Dylan Dog Gigante 4 del 1995, Cronache di straordinaria follia, soggetto e sceneggiatura di Claudio Chiaverotti
Nessun commento:
Posta un commento